martedì 4 gennaio 2011

11 gennaio 1693

Il terremoto del 1693

Trascrizione del testo di:
Salvatore Nicolosi, APOCALISSE IN SICILIA: il terremoto del 1693. Tringale Editore.

"Ma gli uomini e gli elementi aveano congiurato di travagliare in ogni tempo la sempre desolata Augusta e funestissimo più d’ogni altro fu l’anno 1693.
Fin dal 9 gennaro violenti scosse di terremoto e turbini fieri di aggruppati venti atterrirono gli augustani, molti dei quali in una indicibile perplessità fuggirono dall’abitato in luoghi aperti, alzando dapertutto capanne di legno onde scampare ad un eccidio fatale che li minacciava ad ogni istante e bene perloro, avvegnaché il giorno 11 verso 20 ore italiane una violenta scossa fa precipitare tutto l’abitato. La terra sembrò innalzarsi ed ondeggiare; un profondo abisso spalancossi sotto il molo come la voragine d’un vulcano; una densa nube di polvere alzavasi per l’aria, di già ottenebrata da neri nuvoloni; e pioggia e grandine seguita da un turbine di vento alternossi per più d’un’ora. A tal terrore, altri più forti se ne aggiunsero, pei quali il popolo si vide vicino all’ultimo esterminio. Mentre, o si cercavan sotto le macerie i congiunti mutilati e agonizzanti, o si fuggiva all’impazzata gridando misericordia; appiccossi improvvisamente fuoco alle munizioni della cittadella, rovinando il resto delle case, che avean resistito alla furia del terremoto. Né qui finiva l’orrenda catastrofe! Le acque del porto ritiraronsi per più d’un miglio verso le fortezze Garzia e Vittoria, formando un’onda sola e scatenandosi poi con gran fracasso vennero a riversarsi sulle macerie della città. (81) Nulla restò dell’abitato e quel ch’è peggio si ebbero a contare 3.200 vittime del fatale flagello.
Liberi finalmente da quei disastri, fu commovente scena il veder ritornare i cittadini con impresse le vive traccie del terrore, ancora sul viso; e quando tutti fero ritorno, i magistrati, il clero, i religiosi, il popolo, in abito di penitenza implorarono la clemenza divina, girando attorno col Sacramento in processione. (82)
Indi aiutati in gran parte dagli operai che trovavansi numerosi nella ricetta di Malta, misero mano a riedificar le proprie case, e con bella gara si videro dedicare all’improbo lavoro, tutte le braccia senza distinzione d’età, di sesso, di ceto. E prontamente pensossi alla riedificazione d’una sola chiesa, per celebrarvisi i divini sacrifizii e le pubbliche preghiere (83); così nel breve corso di 2 anni, Augusta risorse tutta dalle sue rovine; sicché il viceré duca d’Uzzeda restò meravigliato nel veder prontamente riparati i terribili effetti del terremoto, e volle perciò anch’egli concorrervi apprestando mezzi larghi davvero, qual si dovevavo in quelle tristissimi occasioni (84). Le fortezze furono poi riparate nel 1702 mercé la cura del cardinal Francesco Giudice, allora viceré, il quale volle qui fermarsi tutto il mese di novembre di quell’anno". (pagg. 90-93)

Augusta (ab. 6.173; morti 2.300)
Città demaniale. Tutte le fonti sono concordi nel riportare il numero degli abitanti e quello delle vittime. (pag. 119)








«SI VIDDE PER ARIA UN INFERNO»

"Anche per Augusta, «Città di negozio, bella si per sito, e fabbriche, e ricca per il Mercantile», i "defonti" furono, secondo le notizie di varia fonte, 2.300 a sentire il Boccone, 3.000 secondo il Muglielgini, più di 3.000 secondo il Paglia. L’ultimo "rivelo" le aveva attribuito 6.173 abitanti. La percentuale delle vittime oscillava dunque fra il 40 e il 50 per cento. In quell’«Isola in largo seno di mare», ché su un isola sorgeva ed è tuttora installata la città, il castello fu scompigliato dal terremoto, la «confricazione de’ sassi» produsse scintille e le scintille appiccarono l’incendio alle polveri ammassate nel sotterraneo, le polveri esplosero, il castello volò in pezzi e «si vidde per aria un Inferno». A un rombo sordo, scricchiolante e prolungato che veniva dal suolo e dal sottosuolo si sovrappose un altro rombo, secco ma amplificato da molti echi, sprigionatosi dal castello che saltava in aria: spaventevole fracasso, reso ancor più spaventevole dall’immagine complessiva che si offriva agli spettatori-protagonisti.
Dovette essere davvero una bolgia, per qualche istante: gli edifici «volarono fino in Campagna ad uccidere con pioggie di sassi que’ Cittadini ch’eran scampati dalle rovine». L’acca- demico Muglielgini usò parole terribili e, insieme, patetiche: «ogni sasso che volò à gl’impulsi della polvere formò un gran sepolcro à tutti i Cittadini. Per le campagne viddesi scatenato l’Inferno, mentre una foltissima pioggia di sassi lapidò la vita a quei meschini, che campati erano dal naufraggio della Città».E rincarava la dose, più teatrale e fantasioso, con qualche tocco di macabro, il padre Boccone: «Un Passaggiero, che si trovava distante tre miglia d’Agosta, fatalmente fù colpito in testa da una pietra, portata à volo dall’incendio di essa polvere del Castello. Nella Piazza d’Arme poi di esso castello ad alcuni fù levato il Capo dal busto, ad altri un braccio, é a molti le gambe, e le cosce infrante. Un Bambino lattante, che stava in braccia della Madre hebbe troncata la testa, senza vedersi il feritore, e l’homicida». Inoltre: «Il Mare infuriato spruzzava spaventi, fino a giungere tempestoso alle mura del celebre Convento di S. Domenico: tanto che alcune Galee della Religione di Malta, ch’eran in quel Porto ebbero a sudare, per non patir naufragio».
Quel che, pur danneggiato, riuscì a sopravvivere, fu poco: del castello, che era una costruzione robusta, si salvarono solamente parte dei baluardi; i moli del porto, nei quali si aprirono immense falle; la torre d’Avola (il faro), situata fuori del porto, della quale cadde tuttavia la lanterna. Per il resto: totalmente distrutta la città e un subbisso di morti e feriti. Era stato vano, per molti, correre all’aperto. Non essendoci nella cittadina molte piazze, si poté soltanto restare, tremando di freddo e di paure, sulla strada principale, la più ampia. Ma quando la grande scossa diroccò tutto, le costruzioni dell’una e dell’altra parte si rovesciarono e le pietre strinsero gli augustani da destra e da sinistra, come una tenaglia, e per il moto del suolo li stritolarono.
Fu una strage. «Luctus ubique, pavor, et plurima mortis imago», concludeva Boccone". (pagg. 113-114)

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