lunedì 8 giugno 2009

IL PIU' GRAVE TERREMOTO CHE HA COLPITO L'EUROPA IN EPOCA STORICA

RELAZIONE SUL TERREMOTO DEL 1693
SCRITTA DA UNA RELIGIOSA
DEL MONASTERO DI S. CATERINA DI AUGUSTA.

1693

«Nel suddetto anno 1693 vi furono in tutta questa Val di Noto, e più d'ogni altra parte in questa suddetta Città d'Augusta, due orribili e spaventosi terremoti; il primo a 9 gennaio, giorno di Venerdì, ad ore quattro e mezza di notte; ed il secondo ad 11 di detto mese, giorno di Domenica ad ore 21.
Il primo terremoto, della suddetta notte, ridusse questo Venerabile Monastero in tale lagrimevole stato, che apportava orrore a chi lo mirava. Le mura restarono traboccanti e quasi in atto di precipitare a momenti; parte di quel della Chiesa e del Lettorino rovinati; i dammusi aperti; i travi e i tetti allargati dalle mura; la medietà della Torre caduta e l'altra medietà cadente, e tutto il recinto della Clausura spiantato sino al suolo: restò insomma talmente sconfitto che il giorno seguente che fu Sabato, fu di bisogno levarsi da quella Venerabile Chiesa le sacre particole e lasciarla senza il Santissimo Sacramento. Però per misericordia del Signore, tra tante rovine, nessuna Religiosa morì in quell’orrenda notte; solamente una Diacona precipitò, con tutto il tavolato dall'alto a basso e fu coperta da alcune pietre, però senza nessun danno alla sua persona.
Il tetto, i pilastri, i dammusi ed il Campanile della Chiesa Madre caddero tutti intieri e seppellirono i sacri altari e gli ornamenti della sagrestia.
Nel venerabile Convento della Beatissima Vergine del Carmine precipitò un dormitorio e uccise quei buoni Religiosi che ivi abitavano; i Venerabili Conventi di S. Domenico dei Reverendi Padri Cappuccini, dei Minori Osservanti e dei Padri Paolini restarono totalmente inabitabili. Le chiese tutte patirono il medesimo fracasso: chi ebbe tele di mura cadute e chi campanili, con tutte le campane, precipitati;
ed in alcune, col furioso tremore della terra, saltarono le lapidi delle sepolture, e rimasero le loro bocche aperte.
Caddero quasi tutti i palagi, e quelli che restarono in piedi non erano più atti a potersi abitare: medesimamente le case basse e botteghe e magazzini di tutta la Città.
Nella suddetta notte morirono nella Città duecento e più persone di ogni sesso, età, stato e condizione, ed un Reverendo Cappellano Curato, benché restò vivo, campò pochi giorni con una gamba macinata dall'intaglio della propria porta che lo giunse mentre cercava fuggire nella strada. Tutto il Sabato seguente ad altro non si attese che a disseppellire i cadaveri, di uomini e di donne, di gentiluomini ed artigiani, di preti e regolari, di operai, pescatori e marinari; tutti uccisi all'improvviso dalle fabbriche, mentre dormivano spensierati nel proprio letto, il suddetto terremoto, che replicò la suddetta Domenica ad ore 21, fu così gagliardo e furioso, che totalmente spiantò tutti i Conventi, tutte le Chiese, tutti i Palagi e tutte le case, senza lasciare nella Città né segni di edifici, né vestigia di abitazioni, né forma di strade; nemmeno un palmo di pianura. Nessuno poté allora raffigurare dove era situata la sua casa. Restò insomma Augusta un deserto: un mucchio di pietre e di fabbriche distese in terra. Altro non restò in piedi di tutta la Città che una piccola grotta dove stava riposta la miracolosa Immagine della Vergine Santissima del Soccorso, e, nella campagna, la sola grotta della Vergine Gloriosa di Santa Maria Adonai fu esente da tanta rovina, e pochissime case nel feudo del Monte, e tutte le altre abitazioni, Chiese e torri del territorio, patirono anche il medesimo fracasso, con la morte di tutti quei poveri uomini che ivi si trovavano. Il Castellano della Brucola patì molto danno, nella fortezza Reale di Torre Avolos, la torre che serviva da pubblica lanterna traboccò tutta a mare.
La statua del glorioso Patriarca San Domenico, tuttoché ebbe di sopra le mura della Chiesa e buona parte della fabbrica del convento si dissotterrò nondimeno dopo alcune settimane sana ed intera.
Morirono in questo lagrimevole giorno in tutta la Città e territorio tremila e più persone. Tutte quelle numerose famiglie che dopo il terremoto del cennato Venerdì notte si posero sotto padiglioni nel mezzo delle pubbliche strade fidandosi della loro larghezza; le medesime strade le servirono di sepoltura, poiché la mura dell'una e l'altra parte vi caddero di sopra e le seppellirono vive: altro non si udiva sotto quelle rovine che voci e lamenti, né nessun uomo che restò sano e vivo ebbe animo di dare aiuto a quei poveri moribondi, ma ognuno dava cura a fuggire verso le marine; e quei miseri che erano mezzi sepolti, morirono tutti la notte seguente di spavento, di spasimi, di dolore.
Svampò anche all'improvviso la numerosa quantità della polvere del Castello Reale e buttò a terra una delle sue torri e la fe’ volare tutta per l'aria e fece un'orrenda pioggia di furiose pietre e tutta quella numerosa gente che dopo il primo terremoto si era ritirata nel piano del Castello, per non morire sotto le mura aperte e cadenti delle proprie case ritrovò la morte nel campo aperto di quella Piazza d'armi.
Si videro più di settecento persone in quella lagrimevole pianura smembrate e fieramente uccise.
Morì ancora l'illustre Ricevitore della Gerosolimitana Religione di Malta e numero grande di gente delle sue galere, quali si ritrovavano allora in questo Porto; e la suddetta Squadra subito che fe’, ritorno nella sua Isola, fu seriamente spedita da quell'Eminentissimo Gran Maestro a dare aiuto a questa rovinata città e portò quantità di Medici e Chirurgi, oltre a grande provisione di biscotto.
Tutta la notte di quella memorabile domenica la terra sempre fu un continuo moto e tremore, facendo orribile e spaventosa tuonatina; svaporando per ogni parte un vapore sulfureo a modo di bassa e visibile fiamma ».

(B.C.A., Msc. Raccolta Blasco. Vol. 638, pubblicato da Tullio Marcon in
N.S.A., n. 4. XX p. 103)

1 commento:

  1. Grazie. Una terribile catastrofe quasi inimmaginabile, un bell'esempio di buon e lucido reportage scritto in una bella prosa per niente seicentesca (o almeno come la immagineremmo noi, oggi).

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