sabato 9 maggio 2009

19 maggio 1985: la notte dell'ICAM

19 maggio 1985: la notte dell’ICAM
Era stata una tiepida giornata di primavera inoltrata, una dome­nica come tante altre.
Ero ritornato a casa dalla parrocchia alle 21.00 dopo una giornata in cui avevamo celebrato le prime comunioni.
Rincasando avevo trovato mia madre già a letto ed io ero salito al piano di sopra dove c'era la cucina per consumare la cena e guardare un po’ la televisione.
Mi ero attardato quella sera a guardare la TV che quella sera trasmetteva il settimanale di medicina TG2 trentatrè.
Ricordo quella sera come se fosse oggi: erano le 23,20 circa.
Avvertii un rumore come di un tuono lontano seguito pochi istanti dopo da un forte boato: era l'onda d'urto di un'esplosione che passava sulla città e che rimbalzava sul costone di roccia prote­sa sul mare che ad Augusta chiamano "il monte".
I vetri alle finestre vibrarono facendo intuire che qualcosa di grave stava accadendo o era accaduto.
Pensai subito alla probabile esplosione di un’auto nella strada sottostante. In fretta mi affacciai dal davanzale della terrazza: il cielo si era improvvisamente illuminato a giorno di un intenso
colore rosso arancio; il costone del monte e tutto il golfo Xifonio, il mare ad est di Augusta, per alcuni istanti mantennero il colore delle scene delle esplosioni viste qualche giorno prima nel film "THE DAY AFTYER".
I miei pensieri furono più rapidi della penna con cui scrivo questi ricordi: pensai non più ad un auto, ma ad una possibile esplosione atomica nella base NATO sotto Melilli.
Restai in attesa degli eventi per alcuni interminabili secondi, ma non successe nulla e tutto ripiombò nel buio della notte.
Mi tranquillizzai; non era saltata la base Nato.
Pensai allora all'esplosione di una petroliera nella rada o ad un incidente nella zona industriale.
Un episodio analogo era capitato sei anni prima alla Montedison, quando mi trovavo a Floridia, dove vidi il cielo improvvi­samente colorarsi di rosso in seguito all'esplosione del PR 5; ma quella volta si era trattata di una esplosione isolata.
Stavolta, però, i miei occhi e le mie orecchie erano tesi a percepire anche i più deboli segnali di pericolo.
Tutta la fascia costiera tra Augusta e Siracusa è intasata di impianti industriali e relativi serbatoi di sostanze infiammabili a distanze irrisorie gli uni dagli altri; impianti costruiti
molto tempo prima dei disastri di Seveso, Napoli, Genova o Bhopal.
Ma qui su quella famosa direttiva Seveso neanche si discute, qua­si fosse tempo perso.
Il mio fondato timore fu quello che una possibile serie di esplo­sioni potesse coinvolgere in una pericolosa reazione a catena l'intera zona industriale con il pericolo di qualche micidiale nube tossica.
La prima esplosione, con la sua luce sinistra mi aveva messo in allarme, per cui mi tenni pronto a tentare la fuga.
Mia madre, nel frattempo, si era svegliata chiedendomi cosa stesse succedendo.
Le risposi che probabilmente era successo qualcosa nella zona industriale e la invitai a rivestirsi e a tenersi pronta ad ogni eventualità, compresa quella dell’evacuazione.
Mi ricordo che fu presa dal panico manifestando ad alta voce i suoi pensieri: atteggiamento comprensibile se si considera che mio fratello lavora come turnista nella zona industriale.
Pensò subito di radunare i figli e le rispettive famiglie, che vivono nella zona Borgata e di fuggire.
Io intanto ero sceso in strada per mettere in moto la macchina comprata da appena un mese, sempre pronto a lasciare la città.
Molta gente nel frattempo, bruscamente risvegliata, si era affac­ciata per la strada ora insolitamente animata, chiedendo notizie su cosa stesse accadendo.
A chi me lo chiedeva rispondevo che era sicuramente successo qualcosa nella zona industriale.
All'improvviso il cielo si riilluminò: un'altra esplosione squassò la notte con il suo cupo boato e a questo punto, non solo io, ma tutta la Città ormai sveglia, si mise in allarme e temette il
peggio.
Quel che restava da fare era di cercare di uscire da Augusta prima che diventasse una trappola mortale: se infatti si fosse formata la colonna d' auto saremo rimasti bloccati senza scampo in caso di nube tossica.
Feci salire mia madre in auto, chiusi in fretta l'uscio di casa senza neanche spegnere le luci e mi avviai verso la macchina: erano passati solo due o tre minuti quando avvenne una terza esplosione.
A questo punto anch' io pensai al peggio e senza indugio mi avviai.
Fui fortunato: prima ancora che si formasse la colonna d'auto, riuscii a oltrepassare quell'"imbuto archeologico" denominato "PORTA SPAGNOLA".
Pochi minuti più tardi la teoria di auto che tentavano la fuga non riuscì più a passare (grazie ai colpevoli ritardi con cui non sono stati realizzati quegli svincoli sempre promessi ed ancora attesi).
Nel frattempo c'era stata un'altra esplosione ma non me ne ero accorto, tutto intento com'ero alla guida.
Arrivai presso l'abitazione di una delle mie sorelle nella zona della Borgata denominata S. Cuore: sapevo bene che ogni minuto di tempo ci avrebbe impedito di tentare la fuga: (da quella zona si può uscire solo attraversando il passaggio a livello o facendo un lungo tragitto che va a finire nelle strettoie della zona Fontana)
La famiglia di mia sorella non si era accorta di nulla per via delle serrande abbassate.
Informai rapidamente mio cognato, gli affidai mia madre, mentre io sarei andato oltre il passaggio a livello ad informare l'altra mia sorella, mentre essi avrebbero preso contatto con mio fratello.
Ci demmo appuntamento sulla strada per Brucoli, ma mentre ancora discutevamo ci fu la quinta esplosione: ormai c'era da temere solo il peggio: era chiaro che la situazione non era più sotto controllo.
Vidi poi le foto e le diapositive di quella catena di esplosioni: qualcuno aveva avuto il tempo e il coraggio di immortalare quei giganteschi funghi di fuoco che quella notte crearono il panico:
Una palla di fuoco alta 600 metri, (quattro volte l'altezza della ciminiera dell' ICAM) copriva parte della zona industriale e del porto; i rottami incandescenti scagliati a diverse centi-naia di metri sfiorarono fra l'altro l'incrociatore Andrea Do­ria con il suo carico di missili (fermo ad appena 200 metri dal luogo del disastro) ed un serbatoio di ammoniaca nella vicina Montedison.
Eppure, qualche tempo dopo, un sindacalista della C.G.I.L. si permise di affermare durante un'intervista che "l'incidente fu più un fatto spettacolare che una situazione di effettivo pericolo".
Tentai di attraversare il passaggio a livello, ma c'era già la colonna d'auto che tentava di abbandonare la Città.
A fatica riuscii ad inserirmi e più avanti imboccai una via laterale per raggiungere l'abitazione dell'altra sorella.
Quando vi giunsi era andata già via con tutta la famiglia.
A questo punto non mi restava che ricongiungermi con la mia fami­glia che mi attendevano sulla strada per Brucoli.
Preferii invece cambiare programma: imboccai l'autostrada e mi avviai verso la zona industriale.
C'era già il posto di blocco della polizia: la zona del disastro si trovava proprio dove finiva l'autostrada: sarebbe stato impos­sibile passare.
Già una decina di auto erano state costrette a fermarsi; gli oc­cupanti ne erano scesi per guardare quell'immane rogo.
Riferii ad un agente di essere un prete e di essere disponibile a dare il mio aiuto se fosse stato necessario.
Il divieto fu tassativo. Nessuno fu fatto passare.
Superarono il posto di blocco solo poche auto: quelle di alcuni vigili del fuoco della zona industriale richiamati in servizio per l'emergenza.
Il rogo dell' ICAM, da quel punto di osservazione, illuminava sinistramente tutta la zona.
In tutto ci furono solo sei feriti, ma uno di essi morì l'anno dopo per le conseguenze dell'incidente; a Priolo una donna morì d' infarto per la paura.
I danni materiali furono calcolati in diversi miliardi di lire.
Considerata l' inutilità del mio rimanere lì tornai indietro a raggiungere i miei: li trovai ad attendermi nel luogo concordato preoccupati del mio ritardo e ci dirigemmo verso Villasmundo presso la casa di campagna di mio cognato.
A Villasmundo era in corso una festa con tanto di fuochi d'artificio: nessuno sembrava aver capito quanto fosse successo.
Intanto gran parte della popolazione di Augusta era fuggita in direzione di Catania.
Io con i miei rimasi a Villasmundo fino alle 02,30 di notte.
Quella notte non ci fu fortunatamente la temuta nube tossica, però, lo spavento fu tanto.
E posso dire che ci andò bene.
Provate a immaginare le proporzioni del disastro solo se fosse accaduto in un normale giorno feriale alle 08,00 del mattino anziché alle 23.20 di una domenica sera:
cosa sarebbe potuto capitare alle migliaia di operai che in quel momento avevano appena iniziato a lavorare?
Cosa sarebbe potuto capitare ai treni e alle macchine con i rispettivi passeggeri che transitavano a poche decine di metri dal luogo del disastro?
Gli ospedali e le strutture sanitarie locali avrebbero potuto far fronte all'emergenza?
Quanti feriti sarebbero arrivati in tempo negli ospedali di Siracusa e Catania con l'attuale sistema viario e le condizioni del traffico?
Ma continuo ancora a chiedermi: "E se fosse capitato durante la sera del 23 o del 24 Maggio quando ad Augusta erano in corso i festeggiamenti del S. Patrono?".
In quelle due sere molte migliaia di persone si trovavano al di qua della Porta Spagnola ed il "parcheggio selvaggio" aveva, come al solito intasato il centro storico e paralizzato il traffico: forse il S. Patrono di Augusta si prende ancora cura della "Sua Città" e in quell'occasione ci diede una mano.
Intanto la "Direttiva Seveso" attendeva già dal 1976 di essere tirata fuori dal cassetto del Ministro per la Protezione civile e solo nel 1987 è stata recepita dall'Italia, ma ad Augusta e dintorni forse aspettavano un altro disastro con morti e feriti per poterne solo parlare.
E nel frattempo Augusta, Priolo e Melilli sono altrettante potenziali Seveso, Bhopal, Chernobyl, senza che nessuno se ne preoccupi.
Ed è probabile che un giorno anche Augusta, Priolo e Melilli passeranno alla storia come città martiri del profitto, del di­sinteresse e del pressappochismo di amministratori, politici e funzionari.
Augusta, 19 maggio 1990
Sac. Prisutto Palmiro

Nessun commento:

Posta un commento